Sempre più spesso a chi si occupa di discipline umanistiche – e soprattutto classiche – viene chiesto: «A che cosa serve?» Dietro questa domanda agisce una rete di metafore economiche usate per rappresentare la sfera della cultura («giacimenti culturali», «offerta formativa», «spendibilità dei saperi», «crediti», «debiti» e così via), che contrappongono il valore formativo della cultura classica alle nuove esigenze dettate dalla fulminea trasformazione tecnologica che ha completamente modificato il nostro mondo. Come a dire, semplificando molto, che è più utile, per i millennials che si preparano a entrare nella vita adulta e produttiva, saper usare i social media piuttosto che studiare il greco e il latino.
A fronte di tanta pervasività di immagini tratte dal mercato, però, sta il fatto che la storia testimonia una visione ben diversa della creazione intellettuale. La civiltà infatti è prima di tutto una questione di pazienza: e anche la nostra si è sviluppata proprio in relazione al fatto che alla creazione culturale non si è chiesto immediatamente «a che cosa servisse».
Maurizio Bettini, classicista, scrittore e docente di filologia classica all’Università di Siena, con il suo nuovo saggio A che servono i Greci e i Romani? (Einaudi, in libreria dal 7 febbraio) ripensa il paradigma dell’insegnamento delle materie classiche nelle scuole del nostro Paese, la cui tradizione culturale è stata profondamente segnata dall’ininterrotta conoscenza dei classici.
Se non leggeremo più l’Eneide perderemo contatto non solo con il mondo romano, ma anche con ciò che è venuto dopo. Perdere Virgilio significa perdere anche Dante, e così via. Un cambiamento radicale di enciclopedia culturale somiglia infatti a un cambiamento di alfabeto.
E se è vero che lo sterminato patrimonio culturale italiano dovrebbe essere il nostro “petrolio”, occorre allora ripensare il ruolo dell’insegnamento delle discipline umanistiche nella formazione delle prossime generazioni, fosse anche solo per interesse economico.